Cronisti per un giorno

Forse il modo migliore per descrivere l’esperienza di Cronisti per un giorno è quello di restituire con sufficiente fedeltà l’atmosfera in cui si ritrova chi ne è coinvolto; che proprio in virtù della sua mancata esperienza in quel campo si ritrova naturalmente spaesato.

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di introdurre dei giovani al mondo della cronaca — nel mio caso sportiva, a Milano per l’ultima tappa del Giro d’Italia 2020. Ma ben presto ci si accorge che cronaca non significa solamente scrittura di un articolo.Vivere nel mondo della cronaca vuol dire anche sapersi muovere in quel fitto reticolo che agli occhi del lettore, o dello spettatore, è celato, ma in cui si giocano le scelte logistiche, in cui le notizie mantengono ancora un carattere particolare e del tutto differente da quello che le investirà un volta che si pubblicheranno e verrano diffuse. Le notizie, in quella vita dietro le quinte, vengono avvertite con il loro carattere ribollente, come qualcosa di ancora vivo e presente, con la nitidezza e il calore che si ha guardando il fuoco da vicino; quando verranno diffuse, il loro potenziale cambierà questa carica, per così dire, di vitalità, si affievoliranno e verranno via via intese come elementi di storia — come cronaca, appunto.

In effetti è un po’ paradossale, ma quel che più mi è rimasto di quest’esperienza da cronista per un giorno è esattamente tutto quello che precede il momento della cronaca. Dopotutto il momento della cronaca è un momento di narrazione, di racconto; e, per quanto spesso si tenti di renderlo vicino al lettore, usando magari la potenza evocativa del presente storico, il racconto è sempre rievocazione di un passato. Quando il cronista si appresta a render per iscritto la notizia, il fatto, in un qualche modo si sta distaccando da esso; lo descrive forse accuratamente, ma quanto più la sua analisi va in profondità, tanto più lui prende le distanze dal suo oggetto di interesse.

L’ambiente della sala stampa, dell’andirivieni frenetico di giornalisti, è un clima febbrile, ma sembra che lo sia solo agli occhi di chi è esterno, di chi è solo ospite in quel mondo. Tutti i cronisti sanno muoversi con naturale calma in quello che a me è sembrata una situazione frenetica — anche nella fretta, loro sanno trovare la quiete del racconto. Credo, infatti, che ciò sia dovuto proprio alla loro natura di cronisti, alla loro famigliarità con un tempo così particolare, in cui ci si sposta verso il futuro cercando di avvicinarsi al passato — in cui, cioè, si rende storia il proprio presente.

L’esercizio a cui si è dunque chiamati è quello di saper operare il medesimo distacco. Saper immortalare il proprio presente; scrivere, cioè, la storia di un fatto. Irrimediabilmente però, ed è un destino inevitabile, qualcosa mancherà negli articoli di chiunque; e non sarà una svista, o la man-cata cura per un dettaglio che si è stimato irrilevante. Mancherà sempre, in ogni caso, quell’attaccamento, quella simbiosi che accomuna noi e l’attimo che stiamo vivendo. Vi è, in questo caso, un rapporto che prescinde costitutivamente il tempo del racconto, ed è quel rapporto che rende la narrazione di un qualsiasi accadimento più viva in chi l’ha vissuta che non in chi l’ha solamente senti-ta. È il rapporto che va sempre ricercando la poesia, che infatti se descrive fallisce, e deve invece rievocare.

Ecco, dunque, cosa ho potuto trarre da quest’esperienza. Un modo di guardare il presente che sappia configurarlo nella dimensione storica, ma anche la capacità di instaurare con ogni attimo un rapporto che vivrà fra noi due soltanto. Quel rapporto con gli eventi che si può trovare nascosto, a ben vedere, sotto agli occhi, solo apparentemente distaccati, di ogni cronista.

Istituto Tecnico AFM

Andrea Alfonso

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